"Moby Prince, un atto di pirateria dietro la tragedia"

Una relazione depositata in procura a Firenze ipotizza che dietro la strage ci sia una ritorsione nell’ambito di una guerra commerciale internazionale sul greggio iraniano sotto embargo. Ma la Dda frena: "Non ci sono elementi a sostegno"

Moby Prince

Moby Prince

Livorno, 17 dicembre 2022 - Potrebbe esservi un feroce atto di pirateria navale compiuto per ritorsione nell'ambito di una guerra commerciale internazionale sul greggio iraniano, trasportato in Italia nonostante l'embargo, dietro la tragedia della Moby Prince.

E' quanto starebbe emergendo, a quanto apprende l'Adnkronos, nell'ambito della nuova inchiesta della Dda di Firenze sul traghetto della Navarma che, nella notte limpida del 10 aprile 1991, in assenza di nebbia, di fronte alle coste del porto di Livorno, cambiando improvvisamente e inspiegabilmente rotta di circa 30 gradi, andò a cozzare contro la petroliera Agip Abruzzo, carica - secondo l'ipotesi allo studio - di 82.000 tonnellate di ''iranian light'', e ferma alla fonda in zona vietata, provocando la morte di 140 persone tra passeggeri e equipaggio. Lo scenario, che emerge da una relazione tecnica presentata nei giorni scorsi in procura, vedrebbe la strage della Moby Prince, costata la vita a 65 persone dell'equipaggio e a 75 passeggeri - si salvò solo il mozzo Alessio Bertrand -, strettamente collegata a un altro grave incidente marittimo, quello della Haven, la petroliera cipriota esplosa improvvisamente - 14 ore dopo il disastro della Agip Abruzzo e della Moby Prince - durante un travaso di greggio da una cisterna all'altra, nel tratto di mare fra Genova e Voltri e colata a picco tre giorni più tardi dopo essersi spezzata in due tronconi. In questo caso persero la vita cinque membri dell'equipaggio - erano 36 i marittimi imbarcati - fra cui il comandante, Petros Grigorakakis. E anche in quel caso il sospetto è che non si trattò affatto di un incidente casuale. L'ipotesi complessiva va prendendo corpo dopo che il perito nominato dalla Dda di Firenze, l'esplosivista Danilo Coppe, ha consegnato nei giorni scorsi agli inquirenti una relazione di una settantina di pagine, in cui, rispondendo ai quesiti posti dagli inquirenti, esclude la presenza di esplosivo a bordo della Moby Prince, come, invece, sostenuto dalle prime perizie. Le tracce di esplosivo rinvenute sui reperti sarebbero il frutto di una contaminazione e non, invece, della reale presenza di esplosivo a bordo del traghetto Moby Prince.

Esclusa, quindi, anche questa ipotesi ventilata qualche anno fa sulla base di una perizia risultata, poi, errata, ai magistrati della Procura fiorentina non resta altro che fare una serie di ragionamenti ancorati alle certezze cristallizzate in questi anni tanto dalle precedenti indagini della Procura di Livorno, che ha indagato per prima, quanto dalle investigazioni della Commissione Parlamentare di inchiesta e anche dagli ultimi accertamenti peritali che si sono prolungati di un mese. Secondo la nuova ipotesi, entrambe le petroliere, la Agip Abruzzo e la Haven, trasportavano greggio iraniano, nonostante l'embargo imposto sull'Iran per paralizzare l'economia del paese e convincerlo ad abbandonare il suo programma nucleare. Ed entrambe avevano caricato il petrolio nel terminal egiziano di Sidi Kerir, nell'omonimo porto, 27 chilometri a Ovest di Alessandria. Entrambe sono andate a fuoco, a distanza di 14 ore l'una dall'altra. Stesso porto di carico e partenza. Stesso greggio ''iranian light'', nonostante, con l'embargo in corso, fosse assolutamente vietato, all'epoca, importare petrolio iraniano. Un anno e mezzo dopo il disastro della Moby Prince, della Agip Abruzzo e della Haven, nel settembre 1992, il Wall Street Journal rivelerà che Iran ed Egitto stavano stringendo un accordo per consentire all'Iran, sotto embargo, di trasportare greggio iraniano attraverso il terminal di Sidi Kerir. Proprio quello da cui erano partite la Agip Abruzzo e la Haven. Il Wall Street Journal e il Times of Israel non mancheranno di ricordare che ''l'Iran ha tentato di aggirare le sanzioni mascherando le sue navi per farle sembrare come se provenissero da altri paesi, cambiando bandiera''.

Sulle due petroliere hanno gravato per anni misteri fittissimi. Per esempio, sul tipo di materiale trasportato. C'è stata sempre una incomprensibile resistenza a rivelare il tipo di petrolio nonostante le ripetute richieste di chiarimenti. Ed è stato persino invocato il segreto per impedire che si venisse a sapere l'origine di quell'olio minerale del tipo ''iranian light'' del quale parlò per primo, inavvertitamente, via radio, durante l'incendio, il comandante dell'Agip Abruzzo, interpellato dalla torre di controllo di Livorno che gli chiedeva cosa stesse bruciando. ''Nafta'', disse inizialmente. Poi, incalzato, si lasciò sfuggire le parole ''iranian light''. Altro mistero, al momento inaccessibile, è quello che nasconde la carcassa della Haven che si trova posata, in assetto di navigazione, su un fondale di circa 80-90 metri nelle acque prospicienti Arenzano. La parte superiore del relitto è posizionata ora a circa 60 metri sotto la superficie del mare. Lo squarcio, che potrebbe spiegare cosa è davvero successo, si trova a circa 70 metri di profondità. E, allo stato, non esistono reperti che possono essere esaminati a livello metallografico per stabilire con esattezza la causa dell'esplosione. Così come le foto che esistono dello squarcio non restituiscono in maniera compiuta e chiara lo stato delle lamiera slabbrata. Adnkronos è riuscita ad ottenere, grazie al palombaro, sommozzatore e artificiere Gabriele Paparo che è sceso qualche tempo fa a quella profondità, alcuni rari scatti dello squarcio. Ma sarà necessario, comunque, recuperare qualche reperto e riportarlo a galla nel momento in cui si decidesse di approfondire la questione della Haven e la correlazione con il disastro della Moby Prince.

Un'altra stranezza che potrebbe essere incasellata nel nuovo scenario e, quindi, da approfondire, una volta scartata l'ipotesi di esplosivo a bordo della Moby Prince, è la presenza, inspiegabile, nella sala macchine, sotto la linea di galleggiamento, di un passeggero austriaco, il 28enne Gerald Baldauf, il cui corpo è stato ritrovato perfettamente intatto. Che ci faceva il passeggero in sala macchine mentre il traghetto andava a fuoco? E perché si trovava lì sotto? Così come è sorprendente la presenza del comandante Ugo Chessa e del terzo ufficiale Picone nel ponte 3 dei garage del traghetto. È qui che si potrebbe intravedere la spiegazione dello scenario di quella notte, secondo questa ipotesi investigativa. Il ponte 3 si trova poco sopra la linea di galleggiamento ed ha due botole che conducono all'esterno del traghetto, all'altezza della superficie del mare. L'ipotesi rimasta sul tavolo dopo che tutte le altre sono state via via escluse in questi anni è che i due, Chessa e Picone, possano essere stati presi in ostaggio da un commando che, a bordo del Moby Prince, ha costretto, con quella virata improvvisa e inspiegabile di circa 30 gradi, il traghetto ad andare a schiantarsi contro la petroliera Agip Abruzzo ferma alla fonda. E ritiene che, dopo la collisione, il commando, trascinando con sé Chessa e il terzo ufficiale Picone, si aprì la via di fuga attraverso i garage. Uscendo, poi, dalle botole poco sopra la linea di navigazione, venne recuperato - potrebbe essere questo lo scenario - da un'imbarcazione fantasma e mai identificata che si trovava lì accanto al traghetto in attesa. Sulla scena del disastro, intorno alla Moby Prince, quella notte, è pieno di navi militari statunitensi che, quando si trovano in porto, normalmente spengono i trasponder. Ci vorranno anni per dare un'identità a quelle navi che trasportavano armi scaricandole lì a Livorno, destinazione Camp Darby. Una, in particolare, è rimasta sconosciuta. Sul canale 16 del VHF, quello dedicato alle emergenze, ad un certo punto si sente una voce allarmata: ''This is Theresa, this is Theresa for the Ship One in Livorno anchorage, I'm moving out, I'm moving out!''.

Ma non esisteva, in quel momento, in quella zona di mare, alcuna nave Theresa. I periti a cui si sono affidati i figli del comandante Chessa ritengono, dopo aver campionato la frequenza di quella voce, che appartenesse al capitano greco Theodossiou, comandante della nave militare statunitense Gallant II. Perché, ci si chiede, Theodossiou identificò via radio sul canale di emergenza la propria nave Gallant II con il nome ''Theresa'' dandone poi comunicazione a ''Ship One'', la nave a capo della flotta Usa? Si è cercato, invano, di dare un'identità anche all'elicottero, si sospetta militare e statunitense, che molti testimoni videro sulla scena e che, secondo un perito della Procura di Livorno, viaggiava a 38 nodi - circa 70 chilometri orari - a pochi metri dalla superficie del mare. Un tipo di volo tattico utilizzato in genere in zone di guerra per sfuggire ai radar ma che, in quel caso, venne ''battuto'' dal tracciato della stazione di Poggio Lecceta che si trova sulle colline livornesi. Quell'elicottero così come la presenza di navi militari statunitensi potrebbero spiegare il motivo per cui le tracce radar davanti al porto di Livorno vennero trovate ''sbiancate'', rese inutilizzabili proprio mentre si consumava la tragedia della Moby Prince. Infine c'è il mistero dei passeggeri radunati in 4 minuti nella sala Delux, prima della collisione: indossavano tutti il giubbotto salvagente, come se fossero stati preparati ad affrontare un'emergenza mentre la Moby, motori avanti tutta, procedeva con la prua verso la Agip Abruzzo pochi secondi prima della strage. Chiuso il capitolo dell'esplosivo, inesistente, sulla Moby Prince, ai magistrati non resta altro, a questo punto che decidere se riaprire una nuova inchiesta per far luce su tutti questi misteri.

LA PROCURA DI FIRENZE SMENTISCE - L'ipotesi che possa esservi un atto di pirateria navale dietro la tragedia della Moby Prince è «priva di alcuna evidenza investigativa». È quanto afferma una nota della procura di Firenze in merito a notizie di stampa sulla diffusione del contenuto della relazione depositata nei giorni scorsi agli inquirenti dall'esplosivista Danilo Coppi, per l'inchiesta, condotta dalla Dda fiorentina e dalla procura di Livorno, sul disastro del traghetto che la notte del 10 aprile 1991 si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno: 140 le vittime.

Secondo quanto spiega la procura nella nota, non sono emersi «nel corso delle indagini gli elementi da cui poter trarre le prospettazioni (del tutto congetturali) riportate» nelle notizie di stampa. «L'unico dato emerso con certezza - prosegue la nota - riguarda la totale assenza di esplosivi quale fattori causali dell'incendio susseguente all'impatto tra le due navi». Invece, in ordine all'ipotesi di un atto di pirateria navale, «non vi è alcuna evidenza investigativa».